La scomparsa del funk: storia e destino di una musica collettiva
Il funk, nato con James Brown e diventato simbolo di unione tra culture e razze, oggi è quasi scomparso. Il documentario PBS “We Want the Funk!” racconta l’anima sociale e musicale di un genere che ha segnato un’epoca.
La scomparsa del funk: storia e destino di una musica collettiva
Tagline: Il funk, nato con James Brown e diventato simbolo di unione tra culture e razze, oggi è quasi scomparso. Il documentario PBS “We Want the Funk!” racconta l’anima sociale e musicale di un genere che ha segnato un’epoca.
Introduzione
In un panorama musicale sempre più individualista e frammentato, il funk sembra essere un genere dimenticato, relegato a citazioni nostalgiche o campionamenti digitali. Eppure, questa musica — nata tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 — è stata una delle forme artistiche più potenti e inclusive del Novecento, capace di unire generazioni, razze e classi sociali.
A ricordarcelo è il nuovo documentario dell’emittente pubblica americana PBS, intitolato “We Want the Funk!”, che racconta le origini, l’impatto culturale e il progressivo declino di questo linguaggio musicale collettivo.
Le origini del funk: James Brown e oltre
Il funk nasce nel cuore dell’America nera come espressione ritmica e politica, capace di fondere soul, jazz, rhythm and blues e gospel. La figura cardine è James Brown, considerato il padre spirituale del genere, con brani come Papa’s Got a Brand New Bag e Get Up (I Feel Like Being a) Sex Machine che hanno definito una grammatica musicale fatta di ritmi sincopati, bassi potenti e groove ipnotici.
Da lì in poi, artisti come Sly and the Family Stone, George Clinton con i Parliament-Funkadelic, Bootsy Collins, e successivamente Prince, hanno allargato i confini del funk, rendendolo un movimento culturale, estetico e politico, capace di parlare a tutti.
Un collante sociale e interrazziale
Uno degli aspetti più affascinanti del funk è stato il suo potere aggregante. Nella musica funk non c’è il culto della voce solista o della star assoluta: il ritmo è condiviso, la band è protagonista. Questo modello collettivo ha avuto una forte valenza sociale, soprattutto negli anni della segregazione e dei diritti civili.
“We Want the Funk!” mostra come il funk abbia favorito il dialogo tra comunità nere e bianche, creando spazi di inclusione culturale dove il groove univa ciò che la politica divideva. Concerti, jam session, dancefloor: erano momenti di condivisione reale, autentica, non mediatizzata.
Dove è finito il funk?
La domanda che attraversa tutto il documentario è semplice quanto amara: perché il funk è scomparso? O meglio, perché nella sua forma originaria non esiste quasi più?
Secondo molti musicologi, il funk ha subito una lenta erosione a causa di:
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L’omologazione del mercato musicale, sempre più dominato da logiche digitali e algoritmi di piattaforma.
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La progressiva scomparsa delle band, sostituite da solisti e produttori elettronici.
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Il declino dell’approccio collettivo alla musica, a favore di narrazioni individuali e autocelebrative.
Non è un caso che oggi il funk sopravviva più nei campionamenti dell’hip-hop che in nuove produzioni originali. È diventato una memoria sonora, non una scena viva.
Il funk come metafora sociale
Il documentario della PBS insiste su un punto centrale: la crisi del funk riflette una crisi più ampia, quella del senso di comunità. In un’epoca di polarizzazioni, egoismi e narrazioni verticali, la musica funk — che nasce dal basso, che richiede ascolto reciproco, sincronia e dialogo — appare fuori tempo, quasi anacronistica.
Eppure, proprio per questo, è più necessaria che mai. In un mondo disgregato, il funk rappresenta l’utopia di una collettività armonica, dove ogni strumento ha il suo spazio, ogni voce il suo tempo, e tutto convive in un groove comune.
Conclusione
La scomparsa del funk non è solo una questione musicale: è un segnale culturale. Ricordare il suo valore — come fa il documentario We Want the Funk! — significa fare un atto di resistenza contro l’appiattimento culturale e il culto della performance solitaria.
Forse il funk non tornerà mai nelle classifiche, ma può ancora tornare nel cuore di chi cerca nella musica un’esperienza condivisa, plurale, imperfetta ma autentica. E in un mondo che cambia troppo in fretta, un buon groove può ancora insegnarci a muoverci insieme.
Entertainment
Superman, il supereroe che è tornato a essere umano
Dopo la versione quasi divina di Zack Snyder, il film di James Gunn ci mostra un Clark più fragile, meno invincibile, terrestre per scelta, non per imposizione. E che cerca, in tutti i modi, di fare la cosa giusta.
”Superman umano: la rivoluzione di James Gunn
Il nuovo film dedicato a Superman umano, diretto da James Gunn, segna un cambio di rotta importante rispetto alle precedenti versioni cinematografiche. Dopo l’interpretazione quasi divina offerta da Zack Snyder, arriva un Clark Kent più umano, con fragilità e dubbi.
Un eroe più vicino alla realtà
Nel film di Gunn, Superman sceglie di essere terrestre non per imposizione ma per volontà. Questo rende il personaggio più empatico e vicino al pubblico. Il supereroe non è più invincibile e onnipotente, ma lotta per fare la cosa giusta nonostante le difficoltà.
Una nuova narrativa per il DC Universe
La decisione di umanizzare Superman si inserisce nella volontà di James Gunn di rinnovare il DC Universe. Il regista vuole raccontare storie più intime e personali, senza rinunciare all’epicità, ma offrendo un punto di vista diverso sugli eroi.
Le reazioni del pubblico
Le prime reazioni del pubblico e della critica sembrano apprezzare questa nuova versione di Superman umano. Molti spettatori trovano più facile identificarsi con un Clark Kent meno perfetto e più reale.
Fonti: Variety, The Hollywood Reporter, DC Studios
”Entertainment
Live Aid
13 luglio 1985: due palchi, due continenti, due miliardi di occhi. Ma un solo scopo: salvare vite umane. A raccontare l’impronta culturale del Live Aid, a quarant’anni esatti dall’evento, è il libro di Gabriele Medeot: “Live Aid. Il suono di un’era”.
”Live Aid: la musica e la solidarietà
Il Live Aid, tenutosi il 13 luglio 1985, è stato un evento senza precedenti: due palchi, uno a Londra e uno a Philadelphia, collegati in mondovisione per raccogliere fondi contro la fame in Etiopia.
Un concerto globale
Oltre due miliardi di spettatori hanno seguito il Live Aid, con esibizioni iconiche di artisti come Queen, U2, David Bowie e Led Zeppelin. Il concerto ha segnato un punto di svolta nella storia della musica e nella cultura pop.
Il libro di Gabriele Medeot
A quarant’anni dall’evento, il libro “Live Aid. Il suono di un’era” di Gabriele Medeot racconta le storie, i retroscena e l’impatto culturale di quella giornata. Medeot ripercorre le emozioni, i cambiamenti sociali e le implicazioni politiche di un concerto che ha cercato di cambiare il mondo.
Un’eredità ancora viva
Il Live Aid ha aperto la strada a concerti benefici e ad eventi globali con finalità umanitarie. La sua eredità è ancora oggi uno dei simboli più forti della solidarietà internazionale attraverso la musica.
Fonti: BBC Archives, Gabriele Medeot, Rolling Stone
”Entertainment
Perché sarà un’estate senza tormentoni
Quest’anno verosimilmente non ci saranno tormentoni. Al di là dell’offerta ci possono essere due spiegazioni: da una parte le persone bombardate da mille stimoli, ascoltano sempre meno le novità e si rifugiano nella “musica da repertorio”, dall’altra in un mercato come quello musicale sempre più frammentato l’idea di hit di successo è sempre meno centrale.
”Estate senza tormentoni: un fenomeno nuovo?
Nel 2025 potremmo vivere la prima estate senza tormentoni degli ultimi anni. Una situazione inedita per un Paese come l’Italia, tradizionalmente legato alle hit estive che diventano colonna sonora delle vacanze.
Le ragioni dietro al cambiamento
Le cause sono molteplici. In primo luogo, la saturazione del mercato: le persone sono ormai bombardate da migliaia di stimoli e ascoltano sempre meno le novità musicali, preferendo rifugiarsi nei brani già conosciuti, la cosiddetta “musica da repertorio”.
Il mercato musicale frammentato
Un altro fattore che porta a un’estate senza tormentoni è la frammentazione del mercato. Le piattaforme digitali e le playlist personalizzate rendono sempre più difficile che un singolo brano riesca a imporsi come hit condivisa da tutti.
Un cambiamento culturale?
Potrebbe trattarsi di un cambio di paradigma nel consumo musicale. Non più canzoni onnipresenti, ma un panorama in cui ogni pubblico sceglie la propria colonna sonora estiva. Un cambiamento che potrebbe segnare la fine dei tormentoni come li conosciamo.
Fonti: Spotify Trends, FIMI, Deloitte Music Industry Report
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